In questi giorni i broadcast mondiali hanno dato notizia della chiusura del quotidiano Apple Daily di Hong Kong, di fatto l’ultimo dei giornali di opposizione pubblicato in quell’isola, protettorato inglese fino al 1997 prima di essere integrata con un accordo transitorio, che prevedeva: “Una Cina due sistemi”, nel sistema continentale della Repubblica popolare cinese.
La notizia ha spinto il mondo occidentale e in particolare il governo inglese, che continua a fungere almeno moralmente da garante per quella popolazione, a esprimere pareri preoccupanti dalle conseguenze raggelanti sulla libertà di stampa in quel paese.
Ricordo il ruolo e la funzione del quinto potere nella formazione dell’opinione pubblica delle democrazie avanzate e nei sistemi liberali; il valore e le garanzie che sono a fondamento per il mantenimento della libertà di stampa e per la costruzione del consenso, che mi portano a pensare alle lunghe lotte che gli editori e i giornalisti hanno dovuto affrontare per affermare la credibilità dell’informazione, appunto del quinto potere.
Quanto è successo a Hong Kong mi ha portato a riflettere sulle regole e sugli strumenti, che disciplinano i media e in particolare la stampa per gli italiani all’estero, sia quella prodotta in Italia per l’estero, sia quella edita e distribuita all’estero, e mi sono reso conto della comunanza e di alcune similitudini con i fatti di Hong Kong, delle finezze artificiose e a volte pretestuose, che incombono sugli editori e sui quei giornalisti fedeli alla deontologia professionale, che li vuole liberi, equi e mai asserviti al potere, tanto meno silenti davanti alla notizia.
La libertà in generale e quella di pensiero non è solo un principio fondate e riconosciuto nella nostra costituzione, ma è anche un bene prezioso, è l’essenza vitale per ogni cittadini, che non deve abbassare il capo davanti ai soprusi e alle imposizioni coercitive, diversamente è posto al cospetto di forme di abusi, riflessi di espressione di un potere illegittimo, illiberale, autoritario.
Benché molti dei nostri media e delle nostre testate giornalistiche all’estero siano organizzati e federati in organizzazioni di categoria, e quindi potenzialmente rappresentative dell’intero settore, nelle nostre Comunità si nota un graduale impoverimento della comunicazione; si percepisce il peso dei decisori nelle scelte editoriali, l’invadenza degli uffici pubblici sulla continuità delle pubblicazioni e sulle trasmissioni radiotelevisive pubbliche e private.
E’ recente la norma che regola il riconoscimento dei contributi alle associazioni dei quotidiani, settimanali, mensili e pubblicazioni trimestrali; selettive, macchinose e arcaiche restano, comunque, le regole applicate alla nuova normativa, che esamina e decide l’entità dei contributi e i tempi per la loro erogazione.
I diversi passaggi istruttori delle istanze trasmesse al dipartimento dell’editoria e dell’informazione presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri seguono un iter tortuoso, scollegato nei diversi livelli degli enti e degli uffici che acquisiscono i pareri, che assumono le decisioni finali sulla idoneità delle richieste di contributi e di sostegno all’informazione e all’editoria. Nel processo istruttorio sono coinvolti i Com.It.Es., i Consolati, le Ambasciate, gli uffici del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale prima di passare al vaglio tecnico della commissione esaminatrice del dipartimento presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Basta una distrazione, un impedimento o una decisione arbitraria in uno dei passaggi indicati – e di questi casi se ne verificano ogni anno nell’intero percorso – per bloccare sine die le erogazioni dei contributi, mettendo in serie difficoltà la programmazione amministrativa e editoriale delle varie testate giornalistiche, delle radio e delle emittenti televisive.
Sono all’ordine del giorno i ritardi prodotti dai Com.It.Es., dai Consolati, da diverse Ambasciate e dal Maeci, e da qui la necessità di una legge semplificativa dei processi di controllo amministrativo per liberare i promotori dell’informazione dall’arbitrio di alcune decisioni o comportamenti ricattatori.
Fino a quando in questi ingranaggi erano presenti i rappresentanti della commissione specifica del Consiglio Generale degli italiani all’Estero l’intero comparto produttivo all’estero riusciva ad avere interlocutori diretti, capaci di rappresentarlo e di agire a garanzia dell’autonomia e della libertà di espressione e di giudizio sulle attribuzioni dei contributi.
Da alcuni anni, purtroppo, le contestazioni o i rilievi alle istanze degli editori non sempre sortiscono adeguate attenzioni risolutive. A queste difficoltà temporali si sono aggiunti anche i ritardi causati dalla pandemia, dal conseguente lavoro a distanza, che rifuggono da responsabilità dirette o presunte tali.
Il mondo dell’informazione all’estero ha bisogno di ritrovare un nuovo slancio, deve essere smart, accompagnato nella transizione digitale e sostenuto nel processo dell’innovazione puntando sulla formazione di giornalisti, pubblicisti e manager dell’informazione, che dovranno dare linfa e continuità a quanto offre oggi l’intero armamentario della comunicazione degli italiani all’estero, facendo leva sulle proprie risorse umane e sulla conoscenza, che oramai e per fortuna è globale. Garantire il pluralismo dell’informazione all’estero significa, almeno per ci scrive, assicurare un futuro alla formazione culturale e soggettiva di cittadini capaci di assumere responsabilità e di promuovere aspetti articolati e qualificanti della nostra cultura che si confronta liberamente e si confonde con altre realtà, con altri mondi.
Questa convinzione mi porta a richiamare alle proprie responsabilità e al rispetto delle condizioni della missione affidata, coloro che, nella gestione degli strumenti del servizio pubblico nazionale, hanno scambiato il proprio ruolo con il potere di silenziare le persone, pronti a mettere il bavaglio all’informazione libera, al pensiero divergente dalla linea editoriale, come mi è successo di recente in un’intervista rilasciata a uno dei programmi della televisione di stato.
Le nostre comunità difficilmente riusciranno ad emanciparsi se non saranno aggiornate con programmi e strumenti adeguati ai nostri tempi, se non saranno messi in condizioni di vivere a distanza l’italianità del nuovo millennio.
Per tutta questa serie di ragioni il Consiglio Generale degli Italiani all’Estero è intervenuto presso la commissione bicamerale di vigilanza Rai per la cancellazione dal palinsesto autunnale di Rai Italia del programma sportivo “Goal”, decisone che irrispettosamente ha penalizzato milioni di italiani all’estero senza una compensazione. Gli errori quando si compiono vanno riconosciuti e risolti; quando questi si riflettono sulla sfera dei diritti, per la gravità che ne deriva, chi li ha commessi, deve trarne le conseguenze, farsene una ragione e segnare il passo.
Michele Schiavone
Kreuzlingen, 25 giugno 2021